"ALLE DONNE CHE CI HANNO AMATI. VENGA IL LORO REGNO, SIA FATTA LA LORO VOLONTÀ".
1° giugno 1885
C’è un uomo sulle barricate.
In cima a una catasta di carrozze, omnibus, carri, confessionali e banchi di chiesa, botti piene e vuote, balle di cotone o seta, sedie spagliate e poltrone damascate, stie di pulcini pigolanti e uova mute di onice o alabastro, roba vecchia e roba nuova, cose animate e inanimate, urne sacre e ostensori profani, e poi materassi, letti, tavole e reliquiari, stoviglie, stuoie, tappeti e cenci, legni, stoffe, metalli, piume, pelli, minerali e carni, in vetta a tutto questo il giovane uomo si erge in faccia al nemico. Porta lunghi capelli confusi sul capo scoperto e basettoni che gli scendono incerti fino al mento. Ma non c’è il minimo dubbio nei suoi occhi verdi, Soltanto ardore.
In quegli occhi la felicità dei sensi, la generosità di liberare il proprio unico colpo, ha aperto un crepaccio nel conto del tempo. Il mondo intero vi è risucchiato in un fischio. E a fischiare è lui, il ragazzo. Indossa una giacca attillata con code di velluto spesso color vinaccia e una Camicia di raso viola scintillante aperta sul petto. Il bavero della giacca e il collo della camicia merlettata sono entrambi alzati. Una lunga sciarpa a sbuffo di seta d’Oriente gli si gonfia sotto il mento. Una spilla di topazi la ferma. In una mano brandisce una sciabola e con l’altra sventola una bandiera. Bianco, rosso, verde. E il tricolore d’Italia. Ma, in verità, il giovane insorto sta gioiosamente sventolando se stesso.
Chi è quest’uomo sulle barricate?
Quale esuberanza misteriosa, quale urto nell’ordine naturale delle cose lo ha issato fin lassù, a sbandierare la sua magnetica insolenza a tre metri dal suolo, in piedi sulla portiera della carrozza dei viceré di Spagna, finemente miniata dal grande Rubens e ora rovesciata sul ventre in spregio alle sue magnifiche dorature?
La didascalia — incisa all’interno della custodia impreziosita da eleganti intarsi in ottone, pelle e velluto contenente il dagherrotipo — reca un luogo, una data e una spiegazione: "Milano, 18 marzo 1848, barricata di piazza Cordusio. Giovane insorto sventola la sua bandiera e mostra la sciabola del maresciallo Radetzky strappata al nemico".
Ma la didascalia, invece di chiarirlo, influisce il mistero. L’inspiegabile è proprio ciò che con tutta evidenza sta dinnanzi agli occhi di Italo Morosini, senatore del Regno d’Italia. Com’è possibile? E davvero accaduto qualcosa del genere? Da ore il senatore Morosini stringe tra le dita della sua mano artritica quel dagherrotipo. Lo guarda e lo riguarda ammirato, smarrito,
incredulo, quasi disgustato dallo sproposito che vi è ritratto.
È il principio di giugno del 1885. Sono passati trentasette anni dal momento in cui quell’immagine venne fissata su di una lastra di rame argentata. Adesso, però, al senatore Morosini sembra che siano trascorsi tre secoli.
Fino alla settimana prima, il senatore era un uomo fiero di sé, un uomo eminente, ancora vigoroso nonostante i suoi sessantadue anni, un patriarca intagliato nel mogano, un padre della patria. Mentre adesso, per effetto della dagherrotipia, Italo Morosini è diventato all’improvviso un vecchio gottoso.
Sente l’acido urico nelle cartilagini delle articolazioni dargli dolori acuti alle mani e alle ginocchia. Quell’immagine ritrae la sua giovinezza. Lui la guarda, ma non la riconosce.
La guarda da ore, ma più passa il tempo, più gli sembra impossibile che nel 1848 la cittadinanza di Milano sia spontaneamente insorta e in cinque giorni, con la sola forza del popolo, abbia eretto delle barricate e cacciato la guarnigione del più potente e disciplinato esercito del mondo di allora, capace di occupare saldamente la città per più di trent’anni al riparo di una fortezza imprendibile. In quei cinque giorni, una banda di liceali e di operai aveva caricato e travolto le legioni dell’impero. L’aquila bicipite degli Asburgo era
stata abbattuta a sassate. Era precipitata nelle vie del centro, il centro di una città disselciata e trasformata in proiettile dal suo stesso popolo. Il senatore Morosini ha davanti agli occhi quello straordinario accadimento, che pure continua a sembrargli inconcepibile. Anzi, a ogni nuovo minuto battuto dalla pendola del suo studio, quella stessa evidenza, mentre avanza
nel tempo, retrocede nell’inimmaginabile. Il senatore è confuso. Lo è soprattutto perché quel dagherrotipo è un duplicato, di cui ignorava l’esistenza, dell’immagine che Italo Morosini porta selciata nella memoria da trentasette anni. Il ricordo del 18 marzo 1848, e persino dell’istante preciso in cui quel dagherrotipo venne preso, non lo ha infatti mai abbandonato. Ma rischia di abbandonano ora, proprio ora che il suo fantasma ritorna più nitido che mai. Sì, perché in quell’istante scolpito nel tempo c’era anche lui, Italo Morosini. Su quella barricata in piazza Cordusio c’era anche lui. Giusto un metro più in basso rispetto al ragazzo oltraggioso
che sfida il fuoco nemico, al riparo dietro la portiera della carrozza dei viceré, c’era anche il giovane Italo. Il dagherrotipo non ne porta traccia. E non porterebbe traccia nemmeno del ragazzo dai lunghi capelli confusi se lui quel giorno avesse dato ascolto a Italo che gli gridava: "Stai giù, stai giù che sparano la mitraglia! ". Anzi, se il ragazzo gli avesse dato ascolto,
probabilmente non sarebbe stato preso nessun dagherrotipo. Perché non si fotografa una barricata vuota.
Ora, invece, grazie alla sua incoscienza d’allora, il vecchio Morosini può rivedere il volto dell’amico di gioventù. Il senatore del Regno, infatti, riconosce perfettamente il giovane scriteriato avventuratosi fuori dal riparo: è Jacopo Izzo Dominioni, suo grande amico, suo sodale, suo allievo, suo maestro, suo rimpianto. Morto pochi mesi dopo l’insurrezione per mano dei "tedeschi" — perché per i milanesi oppressi i soldati dell’impero, che fossero croati, tirolesi o magiari, erano comunque tutti tedeschi — la mattina in cui le iene avevano
ripreso Milano. Il vecchio Morosini ha riconosciuto Jacopo al primo sguardo, non appena ha
aperto la busta di carta incerata contenente il dagherrotipo. Lo ha riconosciuto, eppure non sa chi sia. Ha come l’impressione di averlo già visto, ma la reminiscenza è un perdersi, invece che un ritrovarsi. Un déjà vu. Un fastidioso crampo mentale. Questo sembra essere diventata per il senatore Morosini la sua giovinezza. Il vecchio senatore, a voler essere onesto con se
stesso, deve infatti ammettere di non sapere più chi sia quel suo giovane amico. La gotta glielo ha reso estraneo. il tempo è fuori di sesto per il senatore del Regno. Nelle sue articolazioni gottose, il presente e il passato sono un giunto spezzato.
Fino al giorno prima, fino all’alba di quella stessa mattina per Italo Morosini il futuro era stato solo una morigerata certezza della morte. Niente di più.
Soltanto la noia eterna dei reliquiari. E a questo il senatore Morosini si preparava da tempo; ultimamente, era persino arrivato a trarre quasi conforto dall’idea di non avere un futuro. Ma adesso il futuro c’è, balzato fuori da quella busta incerata. Ed è stretto, perverso e sozzo come il vicolo di un bordello.
Un’oscurità che si annuncia beffarda, se a doverla percorrere è un vecchio gottoso. Alla vecchiaia, alla gotta, dovrebbe essere concesso di vivere senza domande. E invece, ora c’è quella busta di carta incerata indirizzata al senatore Italo Morosini, onorevole presidente della Commissione per il conferimento delle medaglie commemorative delle gloriose Cinque Giornate di Milano del marzo 1848, quella busta crudele contenente un dagherrotipo e un biglietto. Sul dagherrotipo c’è Jacopo in cima alla barricata di piazza Cordusio, e sui biglietto, in bella grafia, sta scritto: Jacopo Izzo Dominioni non morì per la patria ma per una causa più alta. O forse per una cosa da niente. Dio giudicherà. Pure che un Dio esista.
Un amico della verità.
Chi è, dunque, quest’uomo sulle barricate?
E chi è, adesso, questo amico della verità, questo calunniatore?
Una fucilata sparata a tradimento da una mano anonima contro la sua vecchiaia. Ecco cos’è stato per il senatore quel biglietto.
Non c’è più misericordia per i vecchi.
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