giovedì 27 marzo 2008

PULIZIA ETNICA ANTIALBANESE(di Lev Trotsky)

La pulizia etnica antialbanese ai tempi della prima guerra balcanica, di Lev Trotsky, pubblicato su Kievsbaja Mysl' No 355, 23 dicembre 1912.
Presentiamo qui uno dei reportage che Trotsky scrisse per il quotidiano radicale di Kiev "Kievslaja Mysl'", al quale il rivoluzionario russo inviò articoli con lo pseudonimo di Antid Oto, come corrispondente di guerra dall'ottobre 1912 al settembre 1913. Soggiornò in diversi Paesi della regione durante l'imperversare delle due guerre balcaniche. Trotsky condusse una campagna di denuncia contro la "pulizia etnica" (anche se allora non si chiamava così) operata da bulgari e serbi contro albanesi e turchi, che ebbe vasta risonanza in Russia, dove giornali e governanti tentavano di nascondere le atrocità commesse dagli eserciti che loro proteggevano. Qui ,Trotsky trascrive "sotto dettatura" il racconto di uno dei suoi amici serbi. Come si sa ,la storia si è ripetuta negli anni novanta con la PULIZIA ETNICA consumata nei confronti delle popolazioni albanesi della Kosova... Lo scritto di Trotsky è ripreso dalla raccolta "Le guerre balcaniche 1912-1913" ...

"Attraversata la vecchia frontiera serba, fummo investiti dall'orrore. Erano le cinque del pomeriggio, ci stavamo avvicinando a Kumanovo; il sole tramontava e cominciava a fare buio. Ma più il cielo si scuriva e più intensi si stagliavano i bagliori degli incendi. Attorno a noi tutto fiammeggiava. Interi villaggi albanesi erano ridotti a cumuli di macerie infocate - vicino e lontano, persino proprio accanto alla massicciata della ferrovia. Era il primo, reale, autentico reciproco sterminio di esseri umani che io abbia mai visto in guerra. Abitazioni, possedimenti accumulati da padri, nonni e bisnonni stavano andando in cenere. Nella sua monotonia fiammeggiante questa scena ci accompagnò per tutto il viaggio, fino a Skopje.
Arrivammo alle dieci di sera. Quando scesi dal carro bestiame a bordo del quale avevo viaggiato, sulla città regnava il silenzio, per le strade non si vedeva anima viva. Soltanto davanti alla stazione, c'era un gruppo di soldati da cui si levava la voce stridula di un ubriaco. Gli altri passeggeri scesi dal treno se ne andarono per la loro strada e io rimasi indietro nella stazione, solo. Mi avvicinai al gruppo. Quattro soldati con le baionette inastate circondavano due giovani Albanesi con i berretti bianchi in testa. Un sottufficiale ubriaco, un komitadzi (cetnico), reggeva in una mano una kama (spada macedone) e nell'altra una bottiglia di cognac. Il sottufficiale intimò: "Giù!". Gli Albanesi, mezzi morti dalla paura, caddero sulle ginocchia. "Su!" e si alzarono. La scena si ripeté più volte. Dopo il sottufficiale, fra minacce e imprecazioni, puntò la spada prima contro la gola e poi contro il petto delle vittime. Li costrinse quindi a bere del cognac e... li baciò. Ubriaco di potere, di cognac e di sangue il sottufficiale si divertiva trastullandosi con loro come un abbietto, malvagio gatto che gioca con un topo. Aveva gli stessi ghiribizzi, la stessa psicologia. Gli altri tre soldati, che non erano ubriachi, se ne stavano impalati e sorvegliavano i due Albanesi per impedirne la fuga o frenare qualsiasi tentativo di resistenza. Il sottufficiale si godeva il suo divertimento. "Sono Arnaut" mi disse semplicemente un soldato. "Adesso li scanna".
In preda all'orrore mi allontanai dal gruppo. Era inutile cercare di proteggere gli Albanesi. Solo una forza armata avrebbe potuto salvare quei due dalle grinfie dei soldati e del sottufficiale. E questo capitava davanti alla stazione ferroviaria, poco dopo l'arrivo di un treno. Scappai via, inorridito, per non sentire gli urli di dolore o le invocazioni d'aiuto.
Per le strade, tutto era tranquillo. Si aveva la sensazione di essere in una città abbandonata. Alle sei di sera tutti i cancelli e le porte erano chiuse. Con il calare del buio i komitadzi si scatenavano. Irrompendo nelle case turche o albanesi, in tutte eseguivano lo stesso rituale di saccheggi e uccisioni. Skopje aveva sessantamila abitanti, metà dei quali Albanesi e Turchi. Una parte era fuggita, ma la grande maggioranza era rimasta in città. E ogni notte era un bagno di sangue.
Prima del mio arrivo a Skopje, ogni mattina, per due giorni di seguito, gli abitanti hanno trovato sotto il ponte principale sul Vardar, cioè in pieno centro cittadino, mucchi di cadaveri. Erano Albanesi con la testa troncata; alcuni dicevano che erano Albanesi della città uccisi dai komitadzi, altri sostenevano che i cadaveri arenati sotto il ponte erano stati trascinati fin lì dalla corrente. Era comunque evidente che questi uomini decapitati non erano stati uccisi in combattimento...
Skopje è ormai ridotta a un accampamento militare. Gli abitanti, i musulmani soprattutto, si nascondono e per le strade si incontrano solo militari. Fra la massa di soldati si vedono anche contadini serbi originari d'ogni parte della Serbia. Con la scusa di andare a cercare figli e fratelli, attraversano la piana del Kosovo e si danno al saccheggio. Ho scambiato qualche parola con un terzetto di questi sciacalli. Erano venuti a piedi dalla Sumadija, nel centro della Serbia, e avevano attraversato la piana del Kosovo. Il più giovane, basso di statura e dall'aria spavalda, si vantava di avere ucciso nel Kosovo, con un fucile a tiro rapido, due Arnaut. "Erano quattro, ma due son riusciti a tagliare la corda". I suoi compagni di viaggio, contadini anziani dall'aria grave, hanno confermato il racconto". Peccato - si lamentavano che non abbiamo molti soldi con noi. Qui si trovano buoi e cavalli in quantità. Il soldato, che riceve una paga di due dínari (settantacinque copechi) va nel villaggio albanese più vicino e ti porta un bel cavallo. Dai soldati ti puoi procurare una coppia di buoi, ma di quelli buoni, per venti dinari". Dalla zona di Vranje, la massa della popolazione è scesa nei villaggi albanesi e ha messo le mani su tutto ciò che capitava a tiro. Le contadine si sono caricate sulle spalle persino le porte e le finestre delle case albanesi.
Due soldati, appartenenti al distaccamento incaricato di disarmare gli Albanesi dei villaggi, si accostano. Uno dei due mi chiede dove può cambiare una lira d'oro. Gli chiedo di mostrarmela, dato che non mi era mai capitato di vedere quella moneta turca. Il soldato si guarda attorno con circospezione e poi estrae la lira dal borsellino. Con un gesto eloquente lascia capire che ne ha altre dentro il borsellino, ma non vuole farlo sapere in giro. E una lira turca, si sa, vale ventitré franchi.
Tre soldati mi sono passati accanto e mi è capitato di orecchiare la loro conversazione. "Non so nemmeno quanti Albanesi ho fatto fuori" diceva uno, "ma non avevano nulla che valesse la pena di prendere. Poi ho fatto fuori una bula (donna musulmana) e le ho trovato addosso dieci lire d'oro".
E ne parlavano apertamente, con aria indifferente, come di una cosa normale. La gente non s'accorge degli enormi cambiamenti interiori provocati in pochi giorni dalla guerra. Ecco fino a quale livello l'uomo dipende da condizioni determinate. Nel contesto della brutalità organizzata della guerra, la gente si abbruttisce senza neppure rendersene conto.
Un plotone di soldati è in marcia lungo la via principale di Skopje. Un Turco, ubriaco e con ogni probabilità mezzo matto, impreca all'indirizzo dei soldati. Questi ultimi si arrestano, spingono il Turco contro il muro della casa più vicina e l'uccidono sul posto. Il plotone prosegue per la sua strada, imitato dai passanti. Incidente chiuso.
Quella stessa sera, incontrai in un albergo un caporale che conoscevo. Il suo reparto era di stanza a Ferizovi, un centro albanese della Vecchi Serbia. Il caporale aveva ricevuto l'incarico di trainare con i suoi uomini un pesante cannone da assedio attraverso la gola di Kocani fino a Skopje Da qui, il cannone sarebbe stato trasportato fino all'armata schierata davanti ad Adrianopoli.
- E che cosa fai adesso fra gli Albanesi a Ferizovi? - gli chiedo.
- Arrostisco polli e ammazzo gli Arnaut. Ma sono stufo - soggiunge con uno sbadiglio, accompagnando le parole con un gesto stanco e indifferente. - Fra di loro ci sono dei ricconi. Vicino a Ferizovi, siamo entrati in un villaggio prosperoso, con case che sembravano torri. Ci siamo introdotti nel cortile di una di queste case. Il proprietario, un vecchio molto ricco, aveva tre figli. Pur essendo solo quattro, avevano molte mogli. Le abbiamo portate tutte fuori dalla casa, le abbiamo messe in fila e poi abbiamo falciato gli uomini sotto i loro occhi. Le donne non hanno emesso un gemito, come se non gliene importasse nulla. Ci hanno chiesto solo se potevano rientrare in casa e prendere le loro cose da donne. Abbiamo lasciato fare. A ciascuno di noi hanno fatto un costoso regalo. Abbiamo infine dato fuoco alla casa.
- Ma perché avete usato tanta brutalità? - gli ho chiesto, scandalizzato dal suo racconto.
- Non se ne può fare a meno, e poi t'abitui. Devo dire che in altri tempi non sarei stato capace di uccidere un vecchio o un bambino innocente. Quando si è in guerra, si sa, il comandante dà ordini che bisogna eseguire. Di fatti come quello che ho raccontato ne sono successi molti, anche di recente. Mentre trainavamo quel cannone verso Skopje, ci siamo imbattuti in un carro dentro al quale erano distesi quattro contadini, con le coperte fino alla vita. Ho percepito immediatamente l'odore d'iodoformio. Qualcosa non va, ho pensato. Ho ordinato di fermare il carro e ho chiesto chi erano e dove andavano. Hanno fatto finta di non capire il serbo e non hanno risposto. Alle redini c'era uno Zingaro. Ci ha spiegato che erano quattro Albanesi reduci dai combattimenti di Merdar. Erano rimasti feriti alle gambe e stavano tornando a casa. Era tutto chiaro.
- Scendete - ho detto loro. Avevano capito, ma non volevano scendere dal carro. Che cosa potevo fare? Ho inastato la baionetta e li ho fatti fuori tutti e quattro, lì, sul carro.
Conoscevo quell'uomo. Aveva lavorato come cameriere a Kragujevac. Era un giovane senza particolari qualità, di natura niente affatto bellicosa, un cameriere come tanti. Allora aveva persino aderito al sindacato dei camerieri, mi pareva anzi che per un certo periodo ne fosse stato addirittura il segretario, poi se n'era andato... e adesso, dopo appena tre settimane di guerra, ecco che cosa era diventato.
- Ma vi comportate da banditi. Uccidete e rubate in modo indiscriminato! Ho esclamato, ritraendomi da quell'uomo, per il quale provavo ormai una repulsione fisica.
Il caporale sembrava scosso. Qualche reminiscenza doveva avergli causato un soprassalto che ora soppesava dentro di sé. Si è quindi giustificato pronunciando con tono solenne e convinto una frase che gettava una luce ancora più sinistra su ciò che avevo visto e udito.
- No, non è vero. Noi dell'esercito regolare ci atteniamo alle regole e non uccidiamo mai persone al di sotto dei dodici anni. Non posso garantire per i komitadzi, loro sono tutt'altra cosa; posso invece garantire per l'esercito.
Il caporale non era disposto a garantire per i komitadzi. E veramente costoro non conoscevano limiti. Per la maggior parte erano stati reclutati fra i lazzaroni, i vagabondi, il sottoproletariato e la feccia della società. Hanno fatto dell'assassinio, del furto, della violenza uno sport divertente. Le loro azioni parlano da sole, persino le autorita militari sono state messe in imbarazzo dai baccanali sanguinari nei quali è degenerata la lotta cetnica e hanno preso drastiche misure. Non hanno neppure aspettato la fine della guerra, li hanno disarmati e rispediti a casa.
L'aria di Skopje era diventata irrespirabile, non riuscivo più a sopportarla. L'interesse politico e la curiosità intellettuale di vedere le cose con i miei occhi era svanita del tutto, dileguata. Desideravo solo andarmene il più presto possibile. Mi sono ritrovato di nuovo sul vagone bestiame, a guardare la piana di Skopje. Che spazi, che bellezza. In un posto come quello gli uomini avrebbero potuto vivere bene, e invece... Ma, non è il caso di dirle a te queste cose, sei della mia stessa idea. Solo che in quel posto la forza di queste idee si moltiplica per dieci. Un quarto d'ora dopo il treno è uscito dalla stazione. Ho guardato fuori. A duccento passi di distanza dai binari ho intravisto un cadavere con accanto un fez. Era a faccia in giù, con le braccia spalancate. Poco distante, due soldati serbi delle unità che montavano la guardia ai binari, confabulavano e scherzavano allegramente. Uno dei due ha indicato il cadavere. Con ogni evidenza era stata opera loro. Via, via, fammi andare via da questo posto.
Non lontano da Kumanovo, in un campo coltivato a foraggio vicino alla linea ferroviaria, alcuni soldati scavavano enormi buche. Ne ho chiesto il motivo. Mi hanno spiegato che dovevano sotterrare una quantità di carne marcia; era su quindici, venti vagoni fermi su un binario morto. A quanto pare, i soldati rifiutano le razioni di carne. Ciò di cui hanno bisogno, e anche qualche cosa di più, lo prendono direttamente nelle case degli Albanesi. Latte, formaggio, miele. "Ho mangiato più miele in questo periodo, a spese degli Albanesi, di quanto non ne abbia mai mangiato in vita mia", mi ha detto un soldato che conosco. I soldati ammazzano ogni giorno buoi, pecore, maiali, polli, li mangiano e buttano via quel che avanza. "Di carne ne abbiamo a sufficienza" mi ha detto un ufficiale addetto ai rifornimenti. "Quello che manca è il pane. Abbiamo scritto un centinaio di volte a Belgrado per avvisarli di non mandare carne, ma continua ad arrivare in applicazione delle procedure previste".
Ho voluto vedere da vicino e questo è quello che ho visto. La carne imputridisce, quella dei manzi come quella umana. I villaggi sono cumuli di macerie fiammeggianti, i soldati sterminano persone "d'età non inferiore ai dodici anni". Stando laggiù si diventa brutali, si perdono i connotati umani. Basta sollevare l'orlo della cortina stesa sulle valorose imprese militari e la guerra si rivela, innanzitutto, nella sua veste abbietta...".
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QUELLO CHE SEGUE E' UN LINK CHE APRE UN SITO CON FOTOGRAFIE SULLA PULIZIA ETNICA SUBITA DAI KOSOVARI NEGLI ANNI '90...PER L'ORRORE DI QUESTE FOTO,SI S C O N S I G L I A LA VISIONE DA PARTE DEI MINORI SENZA ADULTI ACCANTO :

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