Dal libro "A UN PASSO DALLA FORCA" di Angelo Del Boca, per i lettori del blog...
1. LA TRIPOLITANIA OTTOMANA
1. «Alcuni amici mi hanno chiesto, più volte, di scrivere la cronaca degli anni della colonizzazione italiana. Mi sono deciso a farlo quando ho visto il colonialista italiano distruggere il mio Paese e il suo popolo. Confido, con questo racconto, di rendere chiara la storia dell’occupazione italiana del mio Paese, e Dio è testimone della sincerità e veracità delle mie parole».
Con questo incipit solenne, il capo arabo Mohamed Fekini el Tarabulsi el Rogebani cominciava a narrare la storia dell’occupazione italiana della Libia, con particolare
riferimento ai fatti accaduti in Tripolitania dall’ottobre del 1911, data dello sbarco del
corpo di spedizione italiano a Tripoli, al febbraio del 1930, quando gli ultimi
oppositori alla presenza italiana furono costretti ad abbandonare la lotta e a sconfinare
in Algeria. Venti anni di guerra, dunque, di attacchi e di ripiegamenti, con rare pause.
Venti anni di sofferenze per un popolo che cercava, con ogni mezzo, di salvare la
propria identità, la propria cultura, la propria religione da un processo di assimilazione
sempre più dispotico e devastante.
Mohamed Fekini cominciava a scrivere le memorie della sua quasi incredibile
vicenda di strenuo oppositore pochi mesi dopo lo sconfinamento in Algeria. Durante
una lunga sosta nella zawiya di Sidi Moussa, nella desolata Hamàda de Tinrhert,
stendeva la prima parte delle memoriè, dallo sbarco degli italiani sulle coste libiche
all’inizio della rivolta araba del 1915. La seconda parte veniva invece dettata da
Fekini ai suoi segretari a Degache, nel sud della Tunisia, nell’estate del 1931, alla fine
della lunga marcia nel deserto.
Lucidissimo, nonostante avesse superato i settant’anni; in grado di ricordare ogni
avvenimento nella sua completezza; capace di rievocare nomi e date senza
commettere una sola svista, egli ci affida un memoriale che narra, per la prima volta,
l’occupazione italiana della Tripolitania vista dall’altra parte, cioè dalla parte degli
aggrediti. A nostro avviso si tratta di un documento eccezionale, unico, che ha
maggior rilevanza e credibilità del Diario della guerra libica, tenuto da Enver Pascià,
per poco più di un anno, quando era il comandante in capo delle forze turco-arabe in
Cirenaica. Non soltanto perché la testimonianza di Mohamed Fekini si estende su
vent’anni, sull’intero periodo della resistenza araba in Tripolitania, ma perché ci offre
un ritratto accurato e fedele di un popolo povero ma fiero, capace di grandi eroismi e
di nobili aspirazioni, ma anche indebolito dalle continue divisioni e da antichi rancori
di natura etnica.
Se la mente di Mohamed Fekini era lucidissima mentre scriveva le sue memorie, e la
passione del combattente era intatta, la sua vista, invece, era molto compromessa.
L’occhio sinistro, come si può vedere anche nelle fotografie scattate prima e durante il
suo esilio in Tunisia, era completamente spento, e quello destro era in parte offuscato
dalla cataratta,. Eppure il vecchio capo arabo non si arrendeva alla quasi totale cecità.
Egli si sforzava di vincere la nebbia che l’opprimeva. La prima parte del memoriale è
di suo pugno. Lo si nota anche dalla calligrafia a volte incerta, ma educata, e dalle
scarse correzioni. La seconda e più cospicua parte reca invece una calligrafia meno
uniforme, a più mani, con molte cancellature. Oramai quasi cieco, Mohamed Fekini
era costretto a dettare questa parte ai suoi quattro segretari. Egli si valeva, per seguire
il filo degli avvenimenti, delle 335 lettere che aveva scritto, in vent’anni, alle autorità
turche e italiane (molte al generale Graziani, il suo implacabile avversario) e ai capi
arabi della Tripolitania.
C’è, in queste memorie, non soltanto una legittima volontà di precisare il ruolo di
primo piano che l’autore ha avuto nel ventennale scontro con gli italiani invasori, ma
anche, e soprattutto, il bisogno di ribadire che la rivolta dei libici era più che mai
giustificata dalle violenze di ogni tipo, dai soprusi, dalle ruberie, dalle confische, dalle
promesse non mantenute, dal disprezzo che colpiva costumi e religione. Una rivolta
che è costata 100.000 morti e l’esodo forzato di altre decine di migliaia di libici verso
la Tunisia, l’Egitto, il Ciad, l’Algeria, il Niger. Una rivolta che non poteva, non
doveva cadere nell’oblio, perché ha segnato la nascita della nazione libica, la sua
legittimazione.
2. Dominata dai turchi dal 1551, la Tripolitania era, all’inizio del Novecento, un Paese
molto povero, ma non per questo più infelice degli altri più dotati territori del
Maghreb. Secondo il censimento ottomano del 1911, la popolazione totale della
Tripolitania, escluso il Fezzan, era di 523.176 abitanti, di cui 14.000 ebrei e qualche
centinaio di cristiani. La popolazione non era omogenea e andava divisa tra sedentari
(330.000), seminomadi (113.000) e nomadi (80.000). Andava anche ripartita tra arabi
(che costituivano la maggioranza), berberi (circa un terzo della popolazione), e
cologhli, ossia i discendenti di incroci tra giannizzeri, introdotti dal governo ottomano
per servizi di difesa, e donne indigene, arabe e berbere. Nonostante la complessa
varietà della popolazione, la tolleranza tra i diversi gruppi era raramente infranta,
tanto che, per mantenere l’ordine nel vilayet, bastavano i 3000 soldati delle varie
guarnigioni turche e poche centinaia di poliziotti cologhli.
Nelle sue memorie Mohamed Fekini dedica alcune pagine alla storia e alla geografia
della Tripolitania rivelando una buona cultura nonostante avesse frequentato soltanto
le scuole coraniche, a differenza del fratello Ahmed Fadel, che aveva studiato in
Turchia e che nel 1911, al momento dell’invasione italiana, rappresentava il Gebel nel
Parlamento di Costantinopoli. Da buon patriota, Mohamed Fekini cercava di sfatare
l’immagine di una Tripolitania povera, desertica, senza risorse. Scriveva: «La
Tripolitania è una regione mineraria. Vi si trova dello zolfo, del ferro, del carbone e
delle saline. Queste miniere non sono state sfruttate dalle autorità ottomane, che non
accordavano ad esse alcun interesse, ma ne concessero lo sfruttamento ai privati». E
proseguiva:
«Crocevia commerciale, si impose ai suoi vicini, in particolare al Sudan. La
maggioranza degli abitanti di questa regione parla l’arabo mescolato con la lingua
berbera, salvo la tribù Nefùsa, che vive nella montagna dell’Ovest e a Zuara, e che
parla soltanto berbero ed è di confessione ibadita».
I rapporti degli abitanti della Tripolitania con i turchi, che occupavano il Paese da
alcuni secoli, non erano conflittuali, ma non si potevano neppure definire cordiali. Un
attento osservatore, lo sceicco Mohammed ben Otsmane alHachaichi, conservatore
alla biblioteca della Grande Moschea di Tunisi, dopo un breve soggiorno a Tripoli,
così si esprimeva: «Tutti i militari turchi di Tripoli, dal sergente al generale, godono
di una grande agiatezza. Il loro stipendio è pagato mensilmente e ciò gli consente di
abitare nei migliori quartieri. La maggior parte di essi sono sposati. Vestono con
eleganza e sono alla ricerca di ogni piacere. Le loro abitazioni sono attrezzate
all’europea. Da ciò che ho visto, hanno ben poco da fare. Quanto ai soldati, la loro
condizione è pietosa: mal vestiti, mal nutriti, essi non ricevono regolarmente il salario.
Perciò sono crudeli nei confronti degli indigeni, soprattutto se sono arabi, che essi
detestano».
Lo sceicco tunisino precisava inoltre che «le rendite del Paese non arrivavano a
coprire le spese», il che spiegava perché, da secoli, la Sublime Porta gravava gli
abitanti della Tripolitania (e della Cirenaica) di non poche imposte. Negli ultimi
decenni, però, si era assistito a un’inversione di tendenza, almeno per ciò che
riguardava l’erogazione di alcuni servizi e l’applicazione di alcune riforme. I
governatori ottomani avevano infatti favorito la sedentarizzazione dei beduini, lo
sviluppo dell’agricoltura e del commercio transahariano. Avevano dotato le città di
edifici pubblici e soprattutto avevano incoraggiato «l’istruzione locale e la formazione
di un’intellighenzia che si rifacesse ai modelli della vita politica e culturale di
Istanbul».
Nel 1878 il governo ottomano aveva infatti emanato una legge che sanciva
l’istruzione obbligatoria per tutti gli abitanti del vilayet. Tra il 1900 e il 1910 venivano
così costituite a Tripoli ventisette scuole elementari, che si affiancavano alle già
esistenti scuole coraniche (kettab). A un livello superiore c’erano le rushdiyya, le
scuole preparatorie che consentivano di accedere alle scuole superiori militari e agli
istituti tecnici per la formazione dei funzionari amministrativi.
Il governo turco, infine, non si opponeva alla creazione di scuole private straniere,
tanto che nel 1909 si potevano contare a Tripoli venti scuole ebraiche, cinque scuole
elementari italiane finanziate dal governo di Roma, una scuola inglese e due francesi.
Nel 1907, come ricorda Muhammad al-Tahir alJarari, «fu inaugurata a Tripoli la
prima scuola per portatori di handicap sovvenzionata dalla missione francescana
francese per l’insegnamento ai sordomuti e ai disabili in generale». Si aggiunga che
molti giovani potevano completare i loro studi frequentando le università turche, la
famosa al-Azhar egiziana e la non meno celebrata al-Zaytuna di Tunisi. Dinanzi a
questo quadro, che testimoniava un’autentica rinascita intellettuale dei libici, favorita
dal governo ottomano, le pretese dell’Italia di Giolitti di voler esportare in Libia la
civiltà erano semplicemente basate sull’ignoranza e sulla malafede".
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