mercoledì 9 aprile 2008

QUANDO GLI ALBANESI ERAVAMO NOI...

Quando lo Stato italiano vessava i suoi emigrati
Non siamo stati solo "albanesi" come, qualche anno fa, ci ha raccontato Gian Antonio Stella nel suo fondamentale "L'orda - quando gli albanesi eravamo noi". In un certo senso siamo stati anche romeni, srilankesi, filippini, marocchini e cinesi. Lo siamo stati perché, dal punto di vista delle leggi, abbiamo avuto un'esperienza molto simile a quella degli immigrati di oggi. Di più: le linee essenziali dell'attuale legislazione hanno come modello le norme che, nei primi due decenni del dopoguerra, furono sperimentate sui nostri emigrati. E' quanto si scopre leggendo "Lavoro in movimento - L'emigrazione italiana in Europa", 1945-57 di Michele Colucci, recentemente pubblicato da Donzelli.Sono innumerevoli le analogie tra il nostro passato di emigrati e il presente di quelli che vengono da noi. Sono stati i nostri emigrati a sperimentare per primi la connessione rigida tra il possesso di un contratto di lavoro e la possibilità di risiedere in uno Stato estero. E sono stati i primi a reagire con l'emigrazione clandestina alla macchinosità delle normative che stabilivano le procedure per l'espatrio legale. E' nell'immediato dopoguerra che nascono ambigue agenzie di intermediazione e "centri di reclutamento" non molto diversi da quelli che oggi rappresentano il volto formalmente legale del traffico di esseri umani. La ragione è la stessa di oggi: "Chi favoriva l'immigrazione clandestina - scrive Colucci - lo faceva per disporre di manodopera basso costo e ricattabile".Così come gli attuali immigrati stranieri in Italia, i nostri emigrati in Francia, in Germania, in Belgio, erano lavoratori di serie B e, a dispetto delle solenni dichiarazioni di principio contenute nelle premesse degli accordi bilaterali, godevano di minori diritti ed erano esposti a maggiori rischi sul lavoro. Prima della tragedia di Marcinelle (1956, 126 vittime italiane) in Belgio erano già morti 520 nostri minatori.E' nell'immediato dopoguerra che l'Europa conosce, sulla pelle degli italiani, le prime tragedie dell'immigrazione. Il confine da superare non è il Mediterraneo, ma le Alpi. E così il killer non è il mare, ma la polizia svizzera. Il 28 ottobre del 1946 le guardie di confine uccidono "tale Mancassola Pietro, fu Adamo, di anni 23, bracciante", che non ha "aderito alle intimazioni di fermo", come spiega qualche giorno dopo un documento della direzione generale del ministero dell'Interno.Ciò che colpisce maggiormente è l'atteggiamento dello Stato italiano. Nel 1948 vennero istituiti, con lo scopo dichiarato di rendere più semplice l'emigrazione, i "centri di raccolta". Luoghi desolati dove spesso il numero dei poliziotti era di gran lunga superiore a quello dei medici e degli assistenti sociali. Poi, nei paesi di arrivo, i rappresentanti dello Stato italiano erano non solo indifferenti ma addirittura ostili.Ed ecco l'agghiacciante conversazione tra un ragazzo di 23 anni che ha perso un braccio in un incidente sul lavoro e il nostro funzionario consolare in Svizzera che lo esorta a considerarsi fortunato visto che avrà un risarcimento di un milione di lire. "I lavoratori che emigravano - scrive ancora Colucci - erano una presenza scomoda. Una "rogna" per le autorità consolari costrette a occuparsi di loro controvoglia e con scarso interesse. Una scomodità per chi ne aveva organizzato e disposto la partenza".In definitiva, all'assenza attuale di un'adeguata politica nazionale verso l'immigrazione straniera, si trova un riscontro nell'atteggiamento sciatto delle prime istituzioni repubblicane verso l'emigrazione italiana all'estero. E' un elemento da tenere presente: forse a volte si scambia per xenofobia quella che, in realtà, è solo l'ultima puntata di una lunga storia di indifferenza verso i più deboli.
glialtrinoi@repubblica.it

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