domenica 3 agosto 2008

LA MALA SIGNORIA DEI MODERNI ANGIOINI


da "IL CONTRIBUTO DI SALEMI ALL'INUTILE STRAGE", di Salvatore Riggio Scaduto (magistrato)
Data parvenza di legalità alla conquista bellica con la farsa del plebiscito, nel 1861 venne estesa alla Sicilia l'onerosa ed odiata legge piemontese con cui si imponeva la coscrizione obbligatoria del servizio militare di leva della durata di ben sette anni, che sino allora era completamente sconosciuta dai Siciliani. Chi aveva soldi, però, barattava l'esonero come fece lo scrittore Giovanni Verga; chi era povero o non voleva pagare doveva subire la spropositata ferma, di leva. Assai lungo sarebbe, poi, ricordare tutte le atrocità ed i massacri compiuti dal novello Stato Unitario Italiano nei confronti dei veri o dei presunti renitenti alla leva. Ricordo per tutti il sordomuto dalla nascita Antonio Cappello da Palermo, che venne torturato a morte con ferri roventi, perché ritenuto erroneamente simulatore dal medico divisionale Antonio Rastelli di Milano. Il Rastelli, invece di essere processato e punito per il suo barbaro comportamento e per la sua crassa ignoranza, venne insignito dell'onorificenza della croce dei SS. Maurizio e Lazzaro. Sandro Attanasio nel suo libro «Gli Occhiali di Cavour» a pag. 83, così scrive: «Nella provincia di Trapani le operazioni, dirette dal colonnello Eberhardt, ebbero caratteristiche di particolare ferocia. Trapani, Salemi, Monte San Giuliano e Castelvetrano, posti sotto stato d'assedio, ebbero a subire l'interruzione delle condutture d'acqua. Anche in questi Paesi i parenti dei ricercati furono presi in ostaggio e incarcerati». Anche la nostra Salemi venne sottoposta ad operazioni di rastrellamento dei veri o presunti renitenti sotto il comando del maggiore Raìola. Per tre giorni la popolazione e gli animali vennero privati dell'acqua. Il 28 Agosto 1863 il deputato salernitano Simone Corleo inviò per tale privazione un telegramma di protesta e di denunzia al Prefetto di Trapani dal quale si apprende che anche una madre moribonda di un presunto renitente alla leva venne incarcerata. Il Corleo, chiese, perciò, che venisse subito levato il comando «a tale persona dal feroce aspetto», autore di «violenze contro leggi e contro natura» perché altrimenti sarebbe stato costretto ad andare a chiudersi a Salemi per resistere alla testa della popolazione. Agli amministratori di Marsala che ogni anno celebrano con incosciente giubilo lo sbarco garibaldino dei Mille ricordo che ben duemila soldati piemontesi cinsero letteralmente d'assedio quella città, minacciarono di rappresa glia il Sindaco se non avesse consegnato loro i renitenti entro dieci ore, arrestarono e rinchiusero in una buia cava di tufo circa tremila persone ammassandole «come sacchi di paglia» così come disse poi in Parlamento il deputato Vito D'Ondes Reggio. A Petralia il tenente Dupuys impunemente fece bruciare vivi un contadino, Alberto Gennaro Bone e due suoi figli minori. Il tre Gennaio 1862 a Castellammare del Golfo il generale piemontese Pietro Quintino, fece fucilare ben sette persone tra cui una bambina di nove anni di nome Angela Romano ed il sacerdote Benedetto Palermo. Il 13 Gennaio 1863 Francesco Crispi rivolgendosi a Garibaldi così diceva: «Ho visitato là carceri e le ho trovate zeppe di individui che ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. E che dirvi del loro trattamento..., la popolazione in massa DETESTA IL GOVERNO D'TTALIA». Il giornale «II Movimento» di Genova del 21-9-1863 così scrisse: «Arresti persecuzioni e torture come ai tempi di Attila». L'on. Vito D'Ondes Reggio chiese un'inchiesta parlamentare sulle atrocità commesse dalle forze d'occupazione piemontesi in Sicilia, coordinate dal crudele generale Covone. La richiesta venne a gran maggioranza respinta ed il Covone, anzicchè essere sottoposto ad inchiesta e punito, ottenne una promozione. Lo stesso Garibaldi sdegnato per questi comportamenti ed altri deputati della sinistra rassegnarono le dimissioni con questa motivazione: «Per non rendersi compiici indiretti di colpe non sue dinanzi al vituperio della Sicilia». Nessun Re della tanto vituperata dinastia Borbonica si rese responsabile di tante e così gravissime nefandezze. Ecco perché il nostro grande conterraneo Ruggero Settimo, artefice della rivoluzione antiborbonica del 1848, consapevole di tutte queste nefandezze del governo savoiardo dominante in Sicilia, in seguito all'invasione garibaldina anzidetta, volle rimanere esule a Malta sino alla morte, nonostante i reiterati inviti a ritornare in patria. Stanchi di queste angherie del governo unitario savoiardo nel mese di Settembre del 1866 Palermo insorse al grido di «Viva la Repubblica e S. Rosalia» e per sette giorni e mezzo le strade di Palermo si trasformarono in un campo di battaglia. Per riconquistare Palermo e le altre Città insorte venne impiegata la Marina Militare, che bombardò duramente la Città capoluogo. Poi vennero impiegati 40.000 soldati per ristabilire l'ordine dettato e voluto dai conquistatori sotto il comando del generale Raffaele Cadorna, padre del generale sconfitto a Caporetto e nonno del partigiano comunista, che non risparmiò massacri, violenze ed atrocità nella durissima repressione che ne seguì. Questa rivoluzione conosciuta dagli studiosi come «la rivolta del sette e mezzo» perche repressa con inaudita ferocia dopo sette giorni e mezzo, è stata sempre totalmente ignorata negli insegnamenti scolastici e qualificata dagli studiosi ascarizzati, anche nostrani, come una rivolta di briganti, mentre in tutti i libri scolastici di storia non si trascura il modesto episodio di Pietro Micca. Questo comportamento si chiama mistificazione ed occultamento volontario di verità storiche inoppugnabili. Nello stesso anno (1866) della rivolta sici liana del «sette e mezzo», il governo liberal-massonico del tempo, animato da sentimenti palesemente anticlericali, approvò le leggi eversive che portarono alla soppressione delle corporazioni religiose ed all'incameramento dei beni ecclesiastici, mascherando questa maldestra operazione come un atto di giustizia sociale verso i manuali coltivatori della terra. Non potendosi portare via dalla Sicilia i beni immobili espropriati gli invasori italo-piemontesi, vendettero agli stessi siciliani, i beni espropriati alle corporazioni religiose e portarono via dalla Sicilia il cospicuo capitale liquido ricavato, depauperando così i Siciliani del denaro liquido ricavato, che ovviamente venne impiegato al Nord. Il disposto spappolamento dei conventi e l'incameramento dei beni ecclesiastici provocò inoltre un danno incalcolabile al nostro patrimonio artistico, storico, librario e culturale in genere, che in buona parte andò distrutto, disperso e in mille modi perduto. L'inesauribile e smodata sete di denaro dei governanti savoiardi italici che ci liberarono dagli innocui Borboni fu tale che inventarono un vero e proprio sistema doganale in tutti i punti di accesso alle Città, compresi quelli della campagna, al fine di spillare soldi ai cittadini: con questo sistema i cittadini erano costretti a pagare il dazio per qualsiasi prodotto, anche minimo, che dalla campagna veniva introdotto nel centro abitato. L'aborrita tassa borbonica sul macinato si rivelò, perciò, una semplice bazzecola rispetto all'odioso dazio anzidetto: eppure il lavaggio del cervello savoiardo-italico continua ancora a spiegare i suoi effetti anche sulle generazioni del nostro tempo.
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