venerdì 1 agosto 2008

Sud:non è più tempo di icone e santini.../2

Per un comitato di liberazione nazionale sudista
Quando un decennio fa venne fuori, quasi per gioco, il fenomeno del neoborbonismo, ne gioí anche chi, all'idea di contestare lo Stato nazionale era approdato vent'anni prima. Peraltro, se si parte dal rifiuto politico dell'unità sabauda e della successiva unità resistenziale, è inevitabile approdare a una rivalutazione della precedente fase storica in cui il Sud era uno Stato sovrano. E quindi ai Borbone.
A partire da quella prima levata di pizza (piú che di scudi) l'area neoborbonica si è alquanto estesa, cosicché oggi, a voler enumerare i gruppi, le pubblicazioni, gli incontri, le personalità che ad esso si richiamano, ci si trova in imbarazzo. Niente di minaccioso per il sistema italiano, però, in quanto questi punti d'aggregazione mancano di qualità militare e di qualità progettuale, essendo piú che altro una risentita risposta all'inqualificabile grettezza dei bottegai milanesi, i quali intendono continuare ad avere uno Stato in proprietà, facendone pagare il costo essenzialmente ai meridionali, come è avvenuto nel corso del secolo e piú, in cui l'Italia era un paese essenzialmente agricolo, e le esportazioni meridionali e le rimesse degli emigrati permettevano all'industria parassitaria e alle aristocrazie operaie di Torino e di Milano di vivacchiare meno peggio di chi le reggeva sul suo groppone.
Certo, il neoborbonismo si è alquanto diffuso, ma frantumato com'è tra decine di gruppetti, ognuno dei quali ha un suo capo o leader fornito di pulpito, dal quale predica la sua nostalgia per il bel tempo antico, non approda dove vorrebbe. Non v'è dubbio che l'opera volta alla riscoperta del nostro passato è fondamentale se vogliamo dare all'identità meridionale una qualificazione diversa dal peperoncino rosso, dal Vesuvio che non fuma piú, dalla mafia, dal delitto d'onore, dalla processione dei battenti di Tarzia, dai galantuomini falsamente liberali ed effettivamente parassiti, dagli orrendi e incomprensibili dialetti che, chi parla un neolatino fortemente influenzato da eredità germaniche, sente come africani, e dalle molte altre cose su cui hanno grandemente e con successo insistito, e insistono tuttora, la letteratura, il cinema, l'etnologia, il giornalismo "nazionale", quello che nasce dalle braghe onte del grande Albertini, la satira autodenigratoria dell'avanspettacolo, in cui tuttora furoreggia un Lino Banfi, e specialmente la speculazione politica, a partire da Camillo Benzo, fino alla canagliesca e impunita arroganza di Gf. Miglio, nonché la falsificazione storiografica, opera di geniale viltà, in cui brilla la sintesi senza analisi di don Benedetto.
L'identità meridionale, che si pone alla fondazione della civiltà occidentale, è nata invece sul mare. La parte virtuosa della storia napoletana e della storia siciliana sta sul Mare. Sicilia e Sud italiano, entrambi negati come civiltà di Mare dal terragno conquistatore romano (basta leggersi le orazioni contro Verre di Cicerone, che pure era uno dei loro), furono nuovamente negati, nel momento in cui stavano rifiorendo per opera del Mare, dal tetro incalzare del feudalesimo granario e allevatorio dei barbari europei. E solo un cialtrone della statura di Miglio può fingere d' ignorare che Amalfi, Napoli, Salerno, Bari, Otranto, Messina, libere città-mercato, sono storicamente il momento genetico della civiltà moderna (anche della sua, se non fosse un fetente) che si fonda sull'uomo libero e sullo scambio mercantile.
Il Terzo Meridione è merito consapevole dei Borbone di Napoli. Difatti con Carlo III arrivò a Napoli l'idea del monarca illuminato, del padrone-servitore della nazione, e con questa, anche l'indipendenza dalla Spagna e dalla Francia fameliche. I napoletani presero a comportarsi da cittadini di uno Stato nazionale, uomini jure suo, come a quel tempo facevano gli inglesi, i francesi, gli americani, i piemontesi. Lo stesso non si può purtroppo dire per i siciliani, che lo Stato indipendente non ebbero, e che continuarono a pensarsi come creditori dell'indipendenza nazionale (e l'incapacità dei Borbone di risolvere il problema dell'indipendenza siciliana perse loro, i napoletani e anche i siciliani).
Con i Borbone, pur tra mille difficoltà e i notevoli conflitti tra civiltà della terra e civiltà del mare, i napoletani tornano sulla costa, a navigare. La tetra alienazione dal mare, che sotto normanni, angioini e spagnoli si spinse fino a consegnare ai genovesi il commercio marittimo napoletano, finí. Parve per sempre. Invece l'Italia padana e cavourriana, piagnucolosa propaggine dell'Europa granaria e allevatoria, ci ha nuovamente rinchiusi nelle morsa della terragnetà europea.
Se un giorno il Sud italiano ripartirà come Stato indipendente - di chiunque sia il merito - la sua identità di collettività politica, di nazione, si riaggancerà alla storia interrotta nel 1860. E il periodo coloniale italiano non sarà considerato in modo dissimile da quello spagnolo.
Detto questo, si è implicitamente detto che il neoborbonismo da solo non produce politica. Che non basta spargere incenso sull'icona dolorante di Francischiello, perché i meridionali riabbiano la libertà collettiva. Certamente molto di piú aveva fatto il meridionalismo post-risorgimentale che, pur non spingendosi mai fino all'idea della secessione nazionale e pur rimanendo nel quadro istituzionale italiano (cosa che è stata il motivo del suo sostanziale velleitarismo), additava, spiegava, argomentava le responsabilità, i soprusi dello Stato unitario e delle classi dirigenti italiane.
Tale lavoro va ripreso, perché di fondamentale importanza. Infatti l'indipendenza meridionale si può invocare solo partendo dalla dimostrazione che il Sud è un paese senza Stato, anzi un paese governato da uno Stato nemico. Rispetto alla situazione attuale la "bellezza" delle Due Sicilie, non qualificata da un'appendice analitica, progettuale, operativa, non significa niente politicamente. Il susseguirsi dei fiaschi elettorali di questo o quel produttore di giornaletti ne è la prova provata.
L'unità italiana ha fatto del Sud una macchietta, un popolo cornuto e mazziato, una realtà invivibile, un esercito pluricontinentale del lavoro di riserva, un mondo di disoccupati, di precari, di schiavi del lavoro nero e grigio, una collettività guasta, affollata di delinquenti, di cui solo la parte minore sta all'Ucciardone e a Poggioreale, e per il resto sulle cattedre, nei tribunali, negli ambulatori medici, negli ospedali, nelle botteghe, negli alberghi, nelle banche, nei municipi, negli uffici regionali e provinciali, fra le forze dell'ordine, nei consessi politici, a partire dai piú elevati e nazionali.
Non è l'Italia stronzobossista che deve fare i conti con questo mondo, ma è questo mondo che deve chiedere all'Italia, in primo luogo alle regioni stronzobossiste, cosa ha fatto di noi.
Chi fra noi possiede ancora la forza, la libertà morale, il coraggio delle antiche virtú, la dignità che ebbero i fanti di Francisciello affollatisi intorno a Gaeta, per chiedergli di poter combattere finalmente per Napoli, onde risollevare la bandiera tradita e umiliata da un'aristocrazia militare ribalda e venale, la dignità che ebbero i cosiddetti briganti di sfidare i sanguinari bersaglieri scesi da Cuneo e da Vercelli, chi ha intelligenza politica e un reale desidero di liberà (e non, per caso, il prurito di fare il consigliere comunale e il deputato europeo), allora ripieghi il particolare simbolo, sotterri il distintivo inventato per correre alle elezioni che promettono danari e buoni affari. Riuniamoci tutti sotto un solo precetto, fondiamo un Comitato Permanente di Liberazione Nazionale, che abbia titolo per guidare l'azione comune.
Non è piú possibile far credito all'Italia e al suo sistema, ambivalente persino in termini di rappresentanza democratica. Se il capitalismo italiano (o quello europeo) fosse capace di trasformare il Sud, l'avrebbe già fatto. Non avrebbe tenuta inutilizzata per cinquant'anni una massa di dieci milioni di produttori e bloccato nell'improduttività un terzo della nazione italiana. Se il sistema democratico-parlamentare avesse rappresentato - anzi potuto rappresentare - il Sud, il Sud avrebbe quantomeno il lavoro che non ha, e tutti quei servizi sociali e civili che non ha. Nonostante quel che vanno scrivendo i figlioletti di don Benedetto, dallo sbarco di Marsala all'ingresso dell'Italia nell'Europa della moneta unica, il Sud italiano è stato la vittima (cornuta) di un'accumuzione selvaggia da parte del capitalismo padano, il quale ha distrutto tutto, ha risucchiato tutto, non fermandosio dinanzi a niente, neppure ai narcodollari e alla narcolire.
Non è detto che la liberazione napoletana e siciliana debbano percorrere necessariamente una via militare. Non è detto che il problema del risarcimento dei danno di guerra e del costo dell'occupazione coloniale debba necessariamente sfociare in un conflitto armato. Gli italiani del Sud e del Nord inclinano a risolvere le cose pacficamente. E cosí si spera di fare. D'altra parte il paese meridionale è ricco di lavoratori moderni, di intellettuali e tecnici preparati, tanto che ne esporta dovunque, di consistenti masse di risparmio, può persino contare sull'aiuto di due altre popolazioni meridionali che vivono fuori del suolo patrio, e se lo volesse potrebbe stracciare e buttare in faccia a Bossi, a Miglio, a Cacciari, a Formigoni, la cambiale idealmente sottoscritta da Garibaldi centoquarant'anni fa e tuttora insoluta. Al Sud di oggi bastano la libertà di operare e tre anni di tempo per superare in termini di valore aggiunto le piú avanzate regioni centrosettentrionali. Finiamola però con le parate simil-leghiste e con la fioritura di fiordalisi borbonici sui vessilli. Come centoquarant'anni fa, i vessilli spiegati potrebbero nascondere il tradimento.
Chi ha vero amor di patria venga avanti con le mani aperte e nette, e dica cosa pensa e cosa è disposto a fare.
Il mio nome lo conoscete tutti. Il mio indirizzo è indicato qui stesso. Sono, fra voi, quello che ha cominciato per primo e che ha lottato piú a lungo. Ho perciò un quasi diritto a dire: finiamola con la pazziella, qualificatevi. Aspetto la vostra risposta. Anche da coloro che credono di essere gli unti dei Gigli.
Nicola Zitara

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