Orazio Vasta
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Il Brigantaggio in Principato Citra: Vandea, lotta di classe o delinquenza?
di Ciro Pelliccio
di Ciro Pelliccio
E’ sempre difficile quando si parla di brigantaggio politico, connotare esattamente un fenomeno che ebbe molte anime diverse: azione politica, rivolta sociale, fenomeno delinquenziale.
Le varie tendenze storiografiche riflettono posizioni ideologiche e politiche differenti, e non sempre le diverse interpretazioni sono state affrontate con criteri corretti. Se appare superata la visione di intere generazioni di storici che relegano il brigantaggio nel novero della semplice manifestazione delinquenziale che si articola su uno sfondo sociale mai ben definito, non si può certamente convenire con la letteratura sviluppatasi negli anni ‘60, che vede nel brigantaggio (e nei briganti) elementi anticapitalistici e antiborghesi superiori a quelli effettivamente contenuti.
Essa porta a definire le classi rurali come i costruttori di una alternativa rivoluzionaria per uno sviluppo dello Stato Unitario ben diverso da quello che si andava formando. Con ciò si conferisce però alle classi rurali meridionali una vocazione rivoluzionaria e una coscienza di classe che era ben lungi da avere e da venire. Non fosse altro perché in quel periodo un vero proletariato ancora era in fase embrionale, e tantomeno poteva avere la consapevolezza di un preciso compito insurrezionale. Interpretazioni di questo tipo riflettono suggestioni di tipo populistico o anarchicheggiante che idealizzano la spontaneità nei moti delle classi subalterne.
Riesce difficile condividere anche la recentissima corrente "legittimista"che, a mio avviso, ne qualifica i contenuti in termini puramente teoretici-spiritualisti. La sua visione dei contenuti politici come semplice difesa del Trono e dell’Altare, come difesa ad oltranza dei valori della società meridionale sotto l’egida borbonica, appare insufficiente a motivare l’estrema diversità che il fenomeno ha al suo interno.
Essa porta a definire le classi rurali come i costruttori di una alternativa rivoluzionaria per uno sviluppo dello Stato Unitario ben diverso da quello che si andava formando. Con ciò si conferisce però alle classi rurali meridionali una vocazione rivoluzionaria e una coscienza di classe che era ben lungi da avere e da venire. Non fosse altro perché in quel periodo un vero proletariato ancora era in fase embrionale, e tantomeno poteva avere la consapevolezza di un preciso compito insurrezionale. Interpretazioni di questo tipo riflettono suggestioni di tipo populistico o anarchicheggiante che idealizzano la spontaneità nei moti delle classi subalterne.
Riesce difficile condividere anche la recentissima corrente "legittimista"che, a mio avviso, ne qualifica i contenuti in termini puramente teoretici-spiritualisti. La sua visione dei contenuti politici come semplice difesa del Trono e dell’Altare, come difesa ad oltranza dei valori della società meridionale sotto l’egida borbonica, appare insufficiente a motivare l’estrema diversità che il fenomeno ha al suo interno.
Non tiene conto, infatti, della disgregazione della società meridionale e la visione manichea di un galantomismo miserando da una parte, e prodi condottieri dall’altro, appare fin troppo semplicistica.
E soprattutto appare insufficiente a giustificarne la trasformazione che ebbe il brigantaggio nell’autunno del 1861.
Se così fosse stato, la Vandea duosiciliana avrebbe avuto qualche possibilità di inserire la voce delle classi subalterne nella costruzione dello stato monarchico unitario.
Se così fosse stato, la Vandea duosiciliana avrebbe avuto qualche possibilità di inserire la voce delle classi subalterne nella costruzione dello stato monarchico unitario.
E’ utile, a mio avviso, concentrare l’analisi su due aspetti fondamentali del brigantaggio post unitario: le caratteristiche che ebbe come fenomeno di classe e l’impatto sul processo di formazione e consolidamento del nuovo Stato Unitario. Il Brigantaggio ebbe caratteristiche diverse nelle varie aree dell’ex regno che riflettevano i rapporti di forza tra città e campagna e il grado di distribuzione della proprietà fondiaria.
Nei grossi centri urbani e nelle immediate vicinanze, a maggiore vocazione industriale, ad esempio, l’esistenza di un più diffuso proletariato fece sì che fosse quasi del tutto assente; molto più intenso e violento nelle arretrate popolazioni rurali lucane, abruzzesi e calabresi.
Queste avevano un interesse diretto su un fattore di produzione primario come la terra, sentivano fortemente l’esigenza di ultimare le quotizzazioni dei demani e il pericolo derivante dall’incapacità di sostenere la proprietà terriera, che aveva consentito lungo tutta la metà del XIX secolo di aggregare in latifondi ciò che era sparito oltre un cinquantennio prima con la legge del 2 agosto 1806: il feudo.
Queste avevano un interesse diretto su un fattore di produzione primario come la terra, sentivano fortemente l’esigenza di ultimare le quotizzazioni dei demani e il pericolo derivante dall’incapacità di sostenere la proprietà terriera, che aveva consentito lungo tutta la metà del XIX secolo di aggregare in latifondi ciò che era sparito oltre un cinquantennio prima con la legge del 2 agosto 1806: il feudo.
La rescissione del legame feudale, aveva sì reso libero il contadino, ma anche più povero, perché gli negava l’esercizio degli usi civici tanto necessari al proprio sostentamento. Ciò aveva contribuito a tenere le classi rurali in "perenne stato rivoluzionario"che non tardò ad esplodere quando la sovrastruttura politica crollò sotto l’effetto della spinta garibaldma. All’interno però delle stesse classi rurali, il coinvolgimento si differenziò per il grado di concentrazione della proprietà.
E’ sufficientemente documentato di come i capibanda, i briganti erano gli ultimi della gerarchia sociale: impossidenti, bracciali, salariati; è altrettanto documentato la scarsissima partecipazione nella componente militante dei fittavoli, piccoli coloni, piccoli proprietari particellari, che si limitarono a semplice azione di manutengolismo.
E’ sufficientemente documentato di come i capibanda, i briganti erano gli ultimi della gerarchia sociale: impossidenti, bracciali, salariati; è altrettanto documentato la scarsissima partecipazione nella componente militante dei fittavoli, piccoli coloni, piccoli proprietari particellari, che si limitarono a semplice azione di manutengolismo.
Appoggio determinato dal malcontento dallo sfruttamento diretto dei ceti proprietari, in particolare l’usura e la precarietà dei patti agrari, e la stessa soluzione che andavano adottando per la risoluzione della questione demaniale che si volgeva in qualche modo anche a loro danno.
Lo studio del brigantaggio contribuisce a capire i limiti della rivoluzione borghese italiana, diretta dalla destra liberare sul solo terreno politico della comune nazionalità, trascurando quella sul piano sociale ed economico.
Nell’annessione del regno delle Due Sicilie, la Destra moderata effettuò, paradossalmente, scelte ancora più conservatrici causando una frattura con larghi strati della popolazione.
La sua becera miopia provocò il brigantaggio che avrebbe avuto manifestazioni molto diverse se si fossero attuate politiche più ragionevoli e coraggiose: accesso agli impieghi civili e militari, sicurezza, quotizzazioni, avvio di uno sviluppo economico.
La sua becera miopia provocò il brigantaggio che avrebbe avuto manifestazioni molto diverse se si fossero attuate politiche più ragionevoli e coraggiose: accesso agli impieghi civili e militari, sicurezza, quotizzazioni, avvio di uno sviluppo economico.
Solo così avrebbe potuto guadagnare il consenso di ampie fasce delle popolazione dell’ex regno di Napoli, costruendo il nuovo stato su basi più solide che invece preferì forgiare col ferro e col fuoco.
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Fonte: www.ilsaggio.it
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