domenica 7 dicembre 2008

Il dittatore(Garibaldi) e il suo inesistente "Esercito Siculo"....

DITTATORE DELLA SICILIA, NEL NOME DI VITTORIO EMENUELE DI SAVOIA
(da "L'ESSENZA DELLA QUESTIONE SICILIANA" di Natale Turco)

I decreti dei governi dittatoriali dell'estate e il rifiuto dei contadini
Giuseppe Garibaldi non prese mai in considerazione il sacrosanto diritto dei Siciliani alla libertà, né volle riconoscere l'esistenza diquel partito costituzionale che rappresentava l'opinione politica maggioritaria di essi. Non di meno, i testi scolastici e la storiografia tradizionale tentano ancora, nel 1983, di far passare per verità la grossolana menzogna secondo cui egli sbarcò nell'Isola per aiutare il Popolo Siciliano a riprendere in mano la disponibilità del proprio destino.Ad accreditare questa menzogna si sono avvalsi pure del suo proclama marsalese dello stesso 11 maggio, dove però non vi è alcun riferimento specifico al nascosto e già maturo progetto del Governo piemontese d'incorporarsi "sic et simpliciter" quello che, storicamente e giuridicamente, doveva essere considerato invece lo Stato di Sicilia.
In quel proclama, infatti, non parla ancora della «patria italiana», ma dice soltanto con un frasario ambiguo: «Chi non brandisce un'arma è un codardo e un traditore della Patria; la Sicilia insegnerà come si libera un paese dagli oppressori per volontà di un popolo unito!».
Ma nel primo decreto, fatto a Salemi due giorni dopo, egli dichiarò d'intitolarsi "Comandante in capo delle forze nazionali in Sicilia" e di "assumere nel nome di Vittorio Emanuele Re d'Italia, la Dittatura in Sicilia": cioè si attribuì senza mezzi termini e senz'alcun equivoco la posizione giuridica dell''occupante bellico e, in particolare, dell'invasore il quale, per delega più o meno espressa del non ancora re d'Italia, intendeva succedere al precedente invasore.
È dunque inoppugnabile che fin da questo suo primo decreto egli scartasse ogni sia pur minima concessione alle libertà dei Siciliani.
In base ai più elementari principi del diritto internazionale di guerra egli tuttavia non aveva alcun titolo, se non quello della forza, per acquistare la sovranità del Territorio che gradualmente andava occupando, così come non avrebbe potuto procedere da occupante ad una riorganizzazione amministrativa o giudiziaria dello stesso, come fece più tardi; né richiedere ai cittadini un giuramento di fedeltà al suo re e, ai funzionari pubblici, un giuramento di adempiere con fedeltà le loro funzioni.
Aveva invece l'obbligo, proprio dell'occupante, di provvedere all'amministrazione del Territorio, che non poteva essere lasciato cadere nell'anarchia, e secondo quella legislazione e quell'organizzazione che esso aveva per l'innanzi.
La sua conclamata sensibilità di "eroe della libertà dei popoli" avrebbe dovuto dunque indurlo a scegliere tra la legislazione e l'organizzazione che lo Stato di Sicilia si era date nel 1848-49 e quelle del primo occupante borbonico, al quale subentrava.
Egli infine non avrebbe potuto sfruttare il Territorio occupato o distrarne le risorse finanziarie per i bisogni di altri territori e di altre popolazioni di altri Stati...E invece col secondo decreto di Salemi, del 14 maggio, introdusse addirittura la coscrizione militare obbligatoria, bandendo una leva in massa che comprendeva trentatrè classi dai 17 ai 50 anni, in conformità alle leggi ed ai regolamenti dell'amministrazione piemontese e nel disprezzo più assoluto di una diversa tradizione plurisecolare. Come anche notarono nel 1963 Francesco De Stefano e Francesco Luigi Oddo nella Storia della Sicilia dal 1860 al 1910, «i Siciliani, come gli Inglesi, non erano mai stati sottoposti da alcun governo venuto nell'Isola alla leva militare obbligatoria, fatta eccezione per il tentativo infelicissimo del governo borbonico del 1818-20, causa non ultima dei moti del 1820».
E gli stessi Governi siciliani del '48, pur nei più gravi momenti, procedettero soltanto al reclutamento volontario, con il quale, come attesta Pietro Calà-Ulloa in Ferdinando II di Borbone, riuscirono a mettere in campo a malapena due divisioni per un complessivo di circa 20.000 uomini, una brigata internazionale formata di Svizzeri, Bavaresi, Francesi, Americani, Italiani, Tedeschi, Polacchi, Còrsi e Brasiliani, e la legione degli studenti siciliani universitari.
Garibaldi, al contrario, con quel decreto pretese di costituire dall'oggi al domani un "Esercito Siculo" diviso in tre categorie: battaglioni di combattimento, formati di militi dai 17 ai 30 anni; servizio di difesa e per l'ordine pubblico nei distretti, con militi da 30 a 40 anni; e per le stesse mansioni da svolgersi in ogni Comune, una terza categoria con militi da 40 a 50 anni.
Tutto ciò era sommamente ridicolo, e, come notò Cantù, «non d'un sol uomo s'accrebbe il suo immortale drappello; sicché appariva un'invasione, una conquista estranea al Paese!
Bisognava dare dunque importanza a quelle poche squadre che duravano in armi nell'interno dell'Isola, e vi mandò ordine che il raggiungessero... Fino a Calatafimi non ebbe né cibo, né aiuti né cure e le poche squadre trovatesi a fronte della truppa regolare, ricusarono combattere».Nel suo scritto del 1874 su i Mille, parlando del contadino siciliano lo stesso Eroe dei due mondi testimonia: «Non v'è esempio di averne veduto UNO tra i volontari».
E il suo luogotenente Bixio, nella Seduta del 9 dicembre 1863 della Camera dei Deputati, disse in proposito: «II Dittatore ordinava la leva e nessuno presentavasi... I volontari che venivano al mattino, se ne partivano in gran parte la sera, portando via scarpe, fucili e coperte. Il Governo siciliano [cioè quello messo su dalla Dittatura] che andava raccogliendo con molto stento armi ed altro, non trovava modo di far sentire il dovere d'armarsi per la completa liberazione dell'Isola e per proseguire sul Continente».
Fu il Governo piemontese ad equipaggiare, armare ed inviare da Genova dal 24 maggio al 3 settembre un contingente di 21.000 uomini, che giunsero in Sicilia a bordo di 34 navi, principalmente con le spedizioni del generale Medici, dell'ex-generale borbonico Cosenz e di Clemente Corte. Questi dati, raccolti dal Rosada e in parte anche dal Candeloro, confermano quanto scrisse allora il Cantù: «Dopo la vittoria di Milazzo», la cui battaglia durò dal 17 al 25 luglio, «Garibaldi aveva 15.000 uomini, di cui 6.000 Veneti, 5.000 Lombardi, come Lombardi erano tutti quelli della prima spedizione, eccetto qualche Genovese e qualche Napoletano; 1.000 Toscani e 3.000 Siciliani.. Garibaldi non potè mai far conto che sui volontari menati seco da Genova , cioè stranieri alla Sicilia».
E la ragione di questo rifiuto in massa dei contadini e dei braccianti agricoli a partecipare alla conclamata lotta di liberazione dell'Isola va proprio ricercata nel fatto che le masse rurali siciliane si diedero conto fin dai primi giorni di quella tregenda, cioè, tanto del fatto che si trattava di un'altra invasione straniera quanto del tentativo di strumentalizzarle.
Il 2 giugno, infatti, il governo provvisorio garibaldino aveva, emanato da Palermo un decreto sulla divisione dei demani comunali; ma non appena i contadini passarono a reclamarne l'attuazione e a rivendicare anche la quotizzazione delle terre demaniali acquistate illegalmente dai commercianti e dai «borgesi»,fu proprio quel governo che cominciò ad applicare contro di essi quegli altri decreti emanati dallo stesso Dittatore in difesa della proprietà e degl'interessi agrari della borghesia, e per di più adottando condro i poveri disillusi la procedura sommaria dei Consigli di guerra distrettuali, istituiti con il decreto del 20 maggio.
E se ciò costituì da un lato una garanzia per la classe aristocratico-borghese, la quale per ciò inclinò subito all'annessione pronta ed incondizionata, determinò dall'altro la frattura definitiva tra quello pseudo-liberatore e il proletariato dell'Isola.
Le stragi contadine che Bixio e gli altri comandanti delle colonne garibaldine consumarono a Bronte, a Nicosia, a Mascalucia, a Nissoria, a Leonforte e a Biancavilla, sono il suggello e le prove storiche più schiaccianti della politica filoborghese e reazionaria adottata fin dal primo momento dall'Eroe della libertà dei popoli, sulla stessa linea vettrice del Governo piemontese.
L'indirizzo politico che Crispi e il suo Caudillo avevano inteso dare a quella «marcia della liberazione» apparve poi sempre più chiaro, man mano che vennero emanati da Garibaldi e dai suoi due governi dittatoriali i decreti n. 4 del 17 maggio, n. 37 del 13, n.45 del 17, n. 67 del 27 giugno, e n. 80 del 20 luglio.Con il primo decreto di Alcamo, ripartì l'Isola in 24 distretti con a capo un governatore per ciascuno, e diede facoltà al governatore di «ristabilire il Consiglio civico e tutti i funzionari esistenti prima della restaurazione del '49»; e attinge a ciò la nostra prima dimostrazione, secondo cui la maldestra esperienza giuridica del Crispi e quella politica di Garibaldi ricorsero al richiamo in vita proprio di quelle norme emanate sui Consigli civici dai Governi siciliani del 1848-49. Con gli altri invece vennero istituti la milizia a cavallo, l'ufficio del questore per ogni capoluogo di distretto e quello di delegato per la pubblica sicurezza di ogni Comune, ecc, e tutto ciò sempre in conformità alle leggi e ai regolamenti dell'amministrazione piemontese.
E se a nulla valsero i tentativi di ottenere il favore della popolazione col ((richiamare in vigore», come anche ricorda Francesco Brancato in Dall'Unità ai fasci dei lavoratori , «molte leggi e decreti che, emanati dal Governo rivoluzionario del '48, erano stati successivamente abrogati dal governo borbonico», ciò tuttavia suffraga e rafforza la nostra tesi, ossia la dimostrazione che la realtà giuridica dello Stato di Sicilia, riaffermato dalla Rivoluzione del '48, per la coscienza dei nuovi invasori non era poi del tutto un'astrazione.
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*nell'immagine sopra,realizzata da "Sicilia Cavalieri",Natale Turco e la bandiera dell'EVIS.

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