Ascoltare Roberto Vecchioni(http://www.vecchioni.it/) è sempre emozionante...io sono molto legato al brano"Samarcanda",realizzato dal prof. nel 1977, trent'anni fa, un brano chiaro e forte contro la guerra "senza se e senza ma": "C'era una grande festa nella capitale perché la guerra era finita. I soldati erano tornati tutti a casa e avevano gettato le divise. Per la strada si ballava e si beveva vino,i musicanti suonavano senza interruzione...". In tutti i testi di Vecchioni, indipendentemente dall'argomento, è l'uomo come tale ad essere al centro, e nel '77, in Italia,dominava una violenza diffusa- gli anni di piombo-dove la vita umana non era considerata come tale... Orazio Vasta.
Cantautore di rabbia e di stelle
Roberto Vecchioni come lo aspetti e speri: tormentato. Umbratile. Introspettivo.
E però capace anche di alzare la voce, di indignazione civile. Il suo nuovo Di rabbia e di stelle (Universal) colpisce nel segno già al primo ascolto. Il titolo spiega di suo: ci sono dentro arrivisti e baciapile d’ogni tipo e natura ("Questi fantasmi"), ma anche ragazzi da difendere, in «un mondo storpiato/ ingannato, tradito, massacrato!», dal cinismo reiterato degli adulti ("Comici spaventati guerrieri"). Canzoni sul tempo che passa e ci sorprende identici, soprattutto nella pochezza degli slanci ("Tu, quanto tempo hai?"), ma pure l’ironia pungente di "Neanche se piangi in cinese". Poi, come sempre, c’è l’amore. Però, stavolta, quello di un cuore in inverno. Che ha smesso di saltare il fosso e non fa niente per nasconderlo ("Non amo più", "Non lasciarmi andare via"). Il bandolero è stanco, c’è da prenderne atto. Ha cantato di Aiace e Roland, la mitologia rovesciata di senso. Di occasioni non colte, favole, ideali, vicinanze e lontananze. E della morte. Presenza incombente da Samarcanda. Si racconta vittima di un collasso interiore. Lo stesso che nella tolstojana "Il cielo di Austerlitz "coglie il principe Bolskonskij quando, sconfitto, continua a ripetersi:«come è lontano, Dio, lontano il cielo/da tutto quello che ho creduto vero». Sotto il profilo tematico il blues è il timbro permanente del cd. Ma attenti a bollarlo soltanto come plumbeo. Da viale del tramonto. Quando Vecchioni decide di pestare sul pedale del folk- rock ("La ragazza col filo d’argento"), del country ironico e "campagnolo" delle strofe al vetriolo («I poeti non saranno anche nessuno/ma hanno il potere di sputtanarvi»), dei lampi di vita ("Il violinista sul tetto"), lo fa, infatti, con l’efficacia di sempre. Aprendo alla speranza: in fondo non tutto è perduto. Un ritorno discografico ispirato, insomma (musicalmente affidato alle cure doppie di Lucio Fabbri e Patrizio Fariselli). Con l’immancabile traccia da groppo in gola in chiusura di scaletta: la sublime "Le rose blu", ballata ennesima sul dolore. Quello che assedia pancia e cuore, con la complicità di un corno quasi funereo, e degli archi che assalgono alle spalle. I versi, tra i più tristi e "sentiti" che il cantautore abbia mai scritto. «Le rose blu è la canzone più drammatica della mia vita, scritta in uno stanzino buio in due ore. Una preghiera, forse una bestemmia, non so. Un patto impossibile con Dio. Non ti offro la vita, è già tua; ti do quanto ho vissuto se tu dai a mio figlio le rose blu. Però è vero, questa canzone mi ha rieducato. In fondo ho sempre tratto la speranza dal dolore: ho ripreso a farlo. Forse anche con più misura e sincerità di un tempo». Dati gli esiti, c’è da credergli sulla parola.
Mario Bonanno
Da "left" del 7 dicembre 2007
E però capace anche di alzare la voce, di indignazione civile. Il suo nuovo Di rabbia e di stelle (Universal) colpisce nel segno già al primo ascolto. Il titolo spiega di suo: ci sono dentro arrivisti e baciapile d’ogni tipo e natura ("Questi fantasmi"), ma anche ragazzi da difendere, in «un mondo storpiato/ ingannato, tradito, massacrato!», dal cinismo reiterato degli adulti ("Comici spaventati guerrieri"). Canzoni sul tempo che passa e ci sorprende identici, soprattutto nella pochezza degli slanci ("Tu, quanto tempo hai?"), ma pure l’ironia pungente di "Neanche se piangi in cinese". Poi, come sempre, c’è l’amore. Però, stavolta, quello di un cuore in inverno. Che ha smesso di saltare il fosso e non fa niente per nasconderlo ("Non amo più", "Non lasciarmi andare via"). Il bandolero è stanco, c’è da prenderne atto. Ha cantato di Aiace e Roland, la mitologia rovesciata di senso. Di occasioni non colte, favole, ideali, vicinanze e lontananze. E della morte. Presenza incombente da Samarcanda. Si racconta vittima di un collasso interiore. Lo stesso che nella tolstojana "Il cielo di Austerlitz "coglie il principe Bolskonskij quando, sconfitto, continua a ripetersi:«come è lontano, Dio, lontano il cielo/da tutto quello che ho creduto vero». Sotto il profilo tematico il blues è il timbro permanente del cd. Ma attenti a bollarlo soltanto come plumbeo. Da viale del tramonto. Quando Vecchioni decide di pestare sul pedale del folk- rock ("La ragazza col filo d’argento"), del country ironico e "campagnolo" delle strofe al vetriolo («I poeti non saranno anche nessuno/ma hanno il potere di sputtanarvi»), dei lampi di vita ("Il violinista sul tetto"), lo fa, infatti, con l’efficacia di sempre. Aprendo alla speranza: in fondo non tutto è perduto. Un ritorno discografico ispirato, insomma (musicalmente affidato alle cure doppie di Lucio Fabbri e Patrizio Fariselli). Con l’immancabile traccia da groppo in gola in chiusura di scaletta: la sublime "Le rose blu", ballata ennesima sul dolore. Quello che assedia pancia e cuore, con la complicità di un corno quasi funereo, e degli archi che assalgono alle spalle. I versi, tra i più tristi e "sentiti" che il cantautore abbia mai scritto. «Le rose blu è la canzone più drammatica della mia vita, scritta in uno stanzino buio in due ore. Una preghiera, forse una bestemmia, non so. Un patto impossibile con Dio. Non ti offro la vita, è già tua; ti do quanto ho vissuto se tu dai a mio figlio le rose blu. Però è vero, questa canzone mi ha rieducato. In fondo ho sempre tratto la speranza dal dolore: ho ripreso a farlo. Forse anche con più misura e sincerità di un tempo». Dati gli esiti, c’è da credergli sulla parola.
Mario Bonanno
Da "left" del 7 dicembre 2007
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