di Fabio Amato
su Liberazione del 11/05/2008
Ieri si è svolta a Torino la manifestazione contro la Fiera del Libro, che ha come ospite d'onore Israele. Da diversi mesi si è aperto un dibattito, non solo in Italia, sul valore simbolico e politico di questo evento. Celebrare la nascita di uno Stato, nato sulla base delle risoluzioni delle Nazioni Unite, e dimenticare che esiste un popolo intero che è da 60 anni esule, profugo, rifugiato, che giustamente rivendica la sua memoria, ovvero quella della catastrofe seguita alla cacciata di migliaia di donne e uomini dalle terre e dai villaggi che abitavano da secoli, non può che suscitare dibattiti, discussioni, anche aspri. Soprattutto in un momento nel quale viene intensificata la pressione militare su Gaza e Cisgiordania.
Noi abbiamo criticato l'idea del boicottaggio.
Si può discutere, come avviene in tutto il mondo della solidarietà alla causa palestinese, anche nella stessa Israele, se usare o meno questo strumento di pressione. Io penso che sia uno strumento efficace in casi come la cooperazione militare o di beni provenienti dagli insediamenti.
Sbagliata nel caso di una fiera del libro, anche se questa è usata con intenti propagandistici. Il rischio è che assisteremo per l'ennesima volta a una rappresentazione tutta ideologica del dramma mediorientale.
A rimanere sullo sfondo, ancora una volta, rischierà di rimanere l'altra storia, come ci ricorda Edward Said, colpevolmente rimossa dall'Occidente, che la nascita dello stato di Israele ha portato con sé, ovvero l'inizio della tragedia del popolo palestinese, la Nakba.
L'opinione pubblica italiana, rimarrà comunque all'oscuro delle continue prepotenze e violazioni della legalità internazionale che il governo d'Israele compie quotidianamente. E sulle quali, non vi è uguale presa di posizione di quanti invece intervengono, sempre e comunque, in difesa del governo israeliano. Non saprà del muro dell'apartheid, della confisca di terra ai palestinesi, dell'assedio alla popolazione civile di Gaza, delle punizioni collettive.
Non saprà dell'espansione degli insediamenti, della colonizzazione di Gerusalemme, della detenzione di oltre 10.000 palestinesi nelle carceri israeliane. Del persistere di un'occupazione illegale che va avanti da 40 anni.. Siamo convinti che solo da una pace giusta, può nascere una sicurezza per entrambi i popoli. Per il diritto di entrambi ad uno stato. Solo che molti dimenticano che mentre Israele esiste, appunto, da sessant'anni, la Palestina ancora no, nonostante anche nel suo caso lo esiga il diritto internazionale.
Come dimenticano che autorevoli membri del governo di Tel Aviv (per favore, cari cronisti di tv, radio e giornali, non continuate a scrivere di Gerusalemme, poiché non è riconosciuta internazionalmente come capitale, in quanto occupata militarmente e oggetto di una specifica risoluzione dell'Onu), hanno posizioni apertamente razziste, vedi Lieberman. E che è innegabile la volontà politica della maggioranza delle forze politiche israeliane di voler imporre una soluzione unilaterale al decennale conflitto, di tenere in piedi un processo solamente con l'obiettivo di evitare l'isolamento internazionale.
Il processo di pace e la soluzione dei due stati per i due popoli, è oggettivamente compromessa ogni giorno di più dalla politica dei governi israeliani, sostenuti dagli Usa, che hanno, smentendo gli impegni di Oslo, praticato una politica del fatto compiuto.
Troppo il silenzio e il conformismo della comunità internazionale.
Troppa l'indifferenza che ha permesso il crescere di fondamentalismi e allontanato una pace possibile, purché giusta.
La tragedia che ora sta infiammando il Libano, ci dice dell'urgenza di rimettere il tema della pace e della questione palestinese al centro dell'agenda politica.
Il movimento di solidarietà e per la pace dovrà essere capace di unire e non di dividere. Dovremo capire come farlo, evitando una competizione che non aiuta nessuno, prima di tutto il popolo palestinese.
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