PIETRARSA: UN'ALTRA PAGINA DI STORIA DIMENTICATA
A Pietrarsa, poco distante da Napoli, per volontà di Re Ferdinando II di Borbone, desideroso di rendere il Regno delle Due Sicilie sempre più sviluppato economicamente e tecnicamente, e autonomo dalle industrie inglesi, sorse il primo nucleo industriale della penisola. Appena salito sul trono, nel 1830, avviò un processo di industrializzazione di cui la ferrovia rappresentò uno degli aspetti principali.
Già a Torre Annunziata fu istallata una piccola officina per la produzione di materiale meccanico e pirotecnico ad uso della marina e dell’esercito, qui lavoravano operai specializzati che niente avevano da invidiare alle maestranze di tutta Europa. Per non disperdere questa grande professionalità il Re pensò di ingrandire la fabbrica spostandola a Portici. Nacque così, nel 1837, in riva al mare, il Reale Opificio di Pietrarsa, che sfornava prodotti in ghisa ma, soprattutto, macchine e locomotive a vapore.
Il 3 ottobre 1839, si inaugura la prima tratta ferroviaria, Napoli-Portici lunga 7.411 metri, prima in assoluta nella penisola italica. L’entrata in funzione della strada ferrata, poi, favorì ancora maggiormente lo sviluppo del sito industriale: il materiale da lavorare, infatti, poteva giungere sul posto via terra, via mare e servendosi, appunto, della ferrovia.
In poco tempo Pietrarsa, grazie anche ad una rigorosa politica protezionistica, diventò il maggior nucleo industriale della Penisola precedendo alla grande, e di parecchi anni, colossi quali Fiat, Breda o Ansaldo. Con l’apertura di questo opificio il Regno delle Due Sicilie non ebbe più bisogno di acquistare locomotive dall’estero. Nella stessa zona fu istituita anche una scuola per formare Ufficiali Macchinisti per le navi a vapore, sia per l’Armata di Mare che per la marina mercantile del Regno. Infatti il Regno delle Due Sicilie fu l’unico Stato a non aver bisogno di macchinisti inglesi sulle navi a vapore, ciò perché gli ingegneri napoletani, smontando alcune macchine a vapore avevano scoperto ogni segreto del loro funzionamento. L’opificio di Pietrarsa ebbe un enorme sviluppo e al massimo del suo fulgore,, dava lavoro a mille persone, e con l’indotto di altre fabbriche site a San Giovanni a Teduccio, che pure lavoravano materiale per la ferrovia, ne dava ad altre settemila persone.
L’Europa intera rimase colpita da quest’opera eccezionale di riforma e sviluppo. Nel 1845 lo zar Nicola I di Russia su invito di Ferdinando II visitó le officine, e interessato volle rilevare la pianta dello stabilimento per riprodurlo nell'aria industriale di Kronstadt. L'Opificio di Pietrarsa fu visitato anche da Papa Pio IX.
L’opera grandiosa di questo sovrano fu premiato con una colossale statua in ghisa, alta 4,50 metri, raffigurante il re Ferdinando II nell'atto di ordinare la fondazione delle officine, voluta dagli stessi operai e fusa il 18 maggio 1852 nell'Opificio stesso. Si tratta di una delle più grandi statue in ghisa fuse in Italia e si trova attualmente nel piazzale del Museo, purtroppo dimenticata e abbandonata, come tutta la storia di questo glorioso Regno delle Due Sicilie.
Come un fulmine a ciel sereno, nel 1860 dal nord scese l’orda barbarica dei mille, capeggiata dal mercenario Garibaldi, e poi l’esercito di Vittorio Emanuele di Savoia. I Borbone, dopo una eroica difesa del Regno, furono costretti, ad onda dell’intera Europa, a cedere il passo agli invasori piemontesi. Il minuscolo ed insignificante staterello sabaudo, aiutato dalla massoneria, dalla camorra e dalla mafia, con la complicità di non pochi traditori meridionali, inglobò con la forza delle armi la nostra Nazione Duosiciliana, e nacque il Regno d’Italia. Non fu per nulla un grande affare per la popolazione del Sud questa forzata e falsa annessione, e ne fa prova la lotta aspra e senza quartiere che infuriò in tutto il Regno, e che molti ancora si ostinano a chiamare brigantaggio, fu uno dei segni più evidenti del malcontento diffuso e della cupa disperazione che colpì la nostra gente. Anche l’industria dovette fare i conti con il nuovo scenario. Il governo piemontese non aveva alcun interesse a mantenere in vita il sistema creato dai Borbone, che seppure eccellente per lo sviluppo del Sud,arrecava non poco fastidio agli stabilimenti dell’Italia settentrionale, e si decise di privatizzare Pietrarsa svendendola e dandola in gestione alla ditta Bozza, che adottò una dura politica di gestione. Fu la fine per questa meravigliosa opera, come per tante altre create nel periodo borbonico. Il nuovo proprietario diminuì la paga degli operai, ridusse i dipendenti di oltre la metà e aumentò l’orario lavorativo fino a 10 o 11 ore.
Questa situazione creò malumore nei lavoratori e nelle loro famiglie, che sotto il passato Regno vivevano dignitosamente, e nell’agosto del 1863, di fronte all’ennesimo sopruso, al risuonare a distesa della campana della fabbrica, parecchie centinaia di operai, abbandonato il lavoro, si radunarono nel cortile lanciando urla e parole di disapprovazione nei confronti del padrone e dell’usurpatore piemontese, iniziando uno sciopero.
Era il 10 agosto 1863. Di fronte a questa giusta dimostrazione l’usurpatore piemontese rispose, come era suo solito, con la forza, e i bersaglieri di stanza a Portici, con i carabinieri e la guardia nazionale, giunsero davanti allo stabilimento e, superato il cancello, baionetta in canna, si lanciarono sugli operai menando fendenti e sparando ad altezza d’uomo. In quel caldo pomeriggio d'agosto morirono decine di operai, e tanti altri riportarono ferite più o meno gravi. Dopo quel tragico accadimento si decise di concedere la gestione dell’opificio alla Società Nazionale di Industrie Meccaniche. Ormai, però, la gloriosa fabbrica aveva intrapreso la strada del declino. Nel 1875 erano rimasti solo 100 operai. Eppure, appena due anni prima, una locomotiva costruita a Pietrarsa aveva vinto la medaglia d’oro alla Esposizione Universale di Vienna. Qualche tempo dopo lo Stato, per non chiudere lo stabilimento, decise di assumerne la gestione. Dopo la seconda guerra mondiale la crisi si accentuò ulteriormente fino a che, nel 1975, fu varata la definitiva chiusura.
Oggi quello che fu il glorioso Opificio Reale di Pietrarsa ospita la sede di un museo ferroviario. Ma pochi ricordano la triste sorte degli operai uccisi e feriti dalle baionette dei conquistatori, soltanto per aver reclamato il proprio diritto al dignitoso lavoro e alla giusta mercede e la libertà della propria Nazione. I fatti di Pietrarsa sono sconosciuti dai tanti, e mai il 1 maggio, festa dei lavoratori, si fa memoria di questi eroi dimenticati. Molti di essi furono colpiti alla schiena o alla nuca, mentre cercavano di mettersi in salvo. Davvero un atto eroico da parte dei militi piemontesi che non si fecero scrupolo di aprire il fuoco su operai inermi e disarmati.
Nessun monumento, nessuna strada, nessuna targa, nessuna manifestazione ricorda il sacrificio di questi uomini e delle loro famiglie. Forse neppure i loro posteri ricordano più tale scempio. Mentre quegli uomini che straziarono e uccisero gli innocenti, sono ricordati dalla storia ufficiale, come eroi. A questi si dedicano strade e monumenti, dopo che furono causa di quest’eccidio. Tra questi Nicola Amore, questore di Napoli, che grazie a questo misfatto fece carriera, invece di essere rimosso e giudicato, diventando addirittura senatore del regno.
Queste le anomalie del nostro bel paese, che ancora oggi, nonostante la verità storica venga reclamata da numerosi storici, non si ha il coraggio di fare giustizia.
Tocca a noi patrioti meridionali ricordare questi nostri fratelli, uccisi due volte dall’usurpatore, che osò chiamarsi nostro fratello.
Inviato da: massimo.c58
A Pietrarsa, poco distante da Napoli, per volontà di Re Ferdinando II di Borbone, desideroso di rendere il Regno delle Due Sicilie sempre più sviluppato economicamente e tecnicamente, e autonomo dalle industrie inglesi, sorse il primo nucleo industriale della penisola. Appena salito sul trono, nel 1830, avviò un processo di industrializzazione di cui la ferrovia rappresentò uno degli aspetti principali.
Già a Torre Annunziata fu istallata una piccola officina per la produzione di materiale meccanico e pirotecnico ad uso della marina e dell’esercito, qui lavoravano operai specializzati che niente avevano da invidiare alle maestranze di tutta Europa. Per non disperdere questa grande professionalità il Re pensò di ingrandire la fabbrica spostandola a Portici. Nacque così, nel 1837, in riva al mare, il Reale Opificio di Pietrarsa, che sfornava prodotti in ghisa ma, soprattutto, macchine e locomotive a vapore.
Il 3 ottobre 1839, si inaugura la prima tratta ferroviaria, Napoli-Portici lunga 7.411 metri, prima in assoluta nella penisola italica. L’entrata in funzione della strada ferrata, poi, favorì ancora maggiormente lo sviluppo del sito industriale: il materiale da lavorare, infatti, poteva giungere sul posto via terra, via mare e servendosi, appunto, della ferrovia.
In poco tempo Pietrarsa, grazie anche ad una rigorosa politica protezionistica, diventò il maggior nucleo industriale della Penisola precedendo alla grande, e di parecchi anni, colossi quali Fiat, Breda o Ansaldo. Con l’apertura di questo opificio il Regno delle Due Sicilie non ebbe più bisogno di acquistare locomotive dall’estero. Nella stessa zona fu istituita anche una scuola per formare Ufficiali Macchinisti per le navi a vapore, sia per l’Armata di Mare che per la marina mercantile del Regno. Infatti il Regno delle Due Sicilie fu l’unico Stato a non aver bisogno di macchinisti inglesi sulle navi a vapore, ciò perché gli ingegneri napoletani, smontando alcune macchine a vapore avevano scoperto ogni segreto del loro funzionamento. L’opificio di Pietrarsa ebbe un enorme sviluppo e al massimo del suo fulgore,, dava lavoro a mille persone, e con l’indotto di altre fabbriche site a San Giovanni a Teduccio, che pure lavoravano materiale per la ferrovia, ne dava ad altre settemila persone.
L’Europa intera rimase colpita da quest’opera eccezionale di riforma e sviluppo. Nel 1845 lo zar Nicola I di Russia su invito di Ferdinando II visitó le officine, e interessato volle rilevare la pianta dello stabilimento per riprodurlo nell'aria industriale di Kronstadt. L'Opificio di Pietrarsa fu visitato anche da Papa Pio IX.
L’opera grandiosa di questo sovrano fu premiato con una colossale statua in ghisa, alta 4,50 metri, raffigurante il re Ferdinando II nell'atto di ordinare la fondazione delle officine, voluta dagli stessi operai e fusa il 18 maggio 1852 nell'Opificio stesso. Si tratta di una delle più grandi statue in ghisa fuse in Italia e si trova attualmente nel piazzale del Museo, purtroppo dimenticata e abbandonata, come tutta la storia di questo glorioso Regno delle Due Sicilie.
Come un fulmine a ciel sereno, nel 1860 dal nord scese l’orda barbarica dei mille, capeggiata dal mercenario Garibaldi, e poi l’esercito di Vittorio Emanuele di Savoia. I Borbone, dopo una eroica difesa del Regno, furono costretti, ad onda dell’intera Europa, a cedere il passo agli invasori piemontesi. Il minuscolo ed insignificante staterello sabaudo, aiutato dalla massoneria, dalla camorra e dalla mafia, con la complicità di non pochi traditori meridionali, inglobò con la forza delle armi la nostra Nazione Duosiciliana, e nacque il Regno d’Italia. Non fu per nulla un grande affare per la popolazione del Sud questa forzata e falsa annessione, e ne fa prova la lotta aspra e senza quartiere che infuriò in tutto il Regno, e che molti ancora si ostinano a chiamare brigantaggio, fu uno dei segni più evidenti del malcontento diffuso e della cupa disperazione che colpì la nostra gente. Anche l’industria dovette fare i conti con il nuovo scenario. Il governo piemontese non aveva alcun interesse a mantenere in vita il sistema creato dai Borbone, che seppure eccellente per lo sviluppo del Sud,arrecava non poco fastidio agli stabilimenti dell’Italia settentrionale, e si decise di privatizzare Pietrarsa svendendola e dandola in gestione alla ditta Bozza, che adottò una dura politica di gestione. Fu la fine per questa meravigliosa opera, come per tante altre create nel periodo borbonico. Il nuovo proprietario diminuì la paga degli operai, ridusse i dipendenti di oltre la metà e aumentò l’orario lavorativo fino a 10 o 11 ore.
Questa situazione creò malumore nei lavoratori e nelle loro famiglie, che sotto il passato Regno vivevano dignitosamente, e nell’agosto del 1863, di fronte all’ennesimo sopruso, al risuonare a distesa della campana della fabbrica, parecchie centinaia di operai, abbandonato il lavoro, si radunarono nel cortile lanciando urla e parole di disapprovazione nei confronti del padrone e dell’usurpatore piemontese, iniziando uno sciopero.
Era il 10 agosto 1863. Di fronte a questa giusta dimostrazione l’usurpatore piemontese rispose, come era suo solito, con la forza, e i bersaglieri di stanza a Portici, con i carabinieri e la guardia nazionale, giunsero davanti allo stabilimento e, superato il cancello, baionetta in canna, si lanciarono sugli operai menando fendenti e sparando ad altezza d’uomo. In quel caldo pomeriggio d'agosto morirono decine di operai, e tanti altri riportarono ferite più o meno gravi. Dopo quel tragico accadimento si decise di concedere la gestione dell’opificio alla Società Nazionale di Industrie Meccaniche. Ormai, però, la gloriosa fabbrica aveva intrapreso la strada del declino. Nel 1875 erano rimasti solo 100 operai. Eppure, appena due anni prima, una locomotiva costruita a Pietrarsa aveva vinto la medaglia d’oro alla Esposizione Universale di Vienna. Qualche tempo dopo lo Stato, per non chiudere lo stabilimento, decise di assumerne la gestione. Dopo la seconda guerra mondiale la crisi si accentuò ulteriormente fino a che, nel 1975, fu varata la definitiva chiusura.
Oggi quello che fu il glorioso Opificio Reale di Pietrarsa ospita la sede di un museo ferroviario. Ma pochi ricordano la triste sorte degli operai uccisi e feriti dalle baionette dei conquistatori, soltanto per aver reclamato il proprio diritto al dignitoso lavoro e alla giusta mercede e la libertà della propria Nazione. I fatti di Pietrarsa sono sconosciuti dai tanti, e mai il 1 maggio, festa dei lavoratori, si fa memoria di questi eroi dimenticati. Molti di essi furono colpiti alla schiena o alla nuca, mentre cercavano di mettersi in salvo. Davvero un atto eroico da parte dei militi piemontesi che non si fecero scrupolo di aprire il fuoco su operai inermi e disarmati.
Nessun monumento, nessuna strada, nessuna targa, nessuna manifestazione ricorda il sacrificio di questi uomini e delle loro famiglie. Forse neppure i loro posteri ricordano più tale scempio. Mentre quegli uomini che straziarono e uccisero gli innocenti, sono ricordati dalla storia ufficiale, come eroi. A questi si dedicano strade e monumenti, dopo che furono causa di quest’eccidio. Tra questi Nicola Amore, questore di Napoli, che grazie a questo misfatto fece carriera, invece di essere rimosso e giudicato, diventando addirittura senatore del regno.
Queste le anomalie del nostro bel paese, che ancora oggi, nonostante la verità storica venga reclamata da numerosi storici, non si ha il coraggio di fare giustizia.
Tocca a noi patrioti meridionali ricordare questi nostri fratelli, uccisi due volte dall’usurpatore, che osò chiamarsi nostro fratello.
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